lunedì 3 febbraio 2014

Quella “zona franca” che farebbe ripartire Milano. Quindi l’Italia


Manca appena un anno a Expo 2015, Milano sta già cambiando il suo volto per poterla ospitare, i commercianti, strangolati dalla crisi stringono i denti e attendono un’occasione più unica che rara per poter fare profitti dopo tanta depressione. È in questo contesto che la Confcommercio avanza una richiesta più che legittima: che le autorità politiche locali non siano di intralcio, ma di aiuto, in zona franca un’occasione importante come quella. Gianroberto Costa, il presidente della confederazione dei commercianti, al Tavolo dello Sviluppo (promosso dal Comune due giorni fa) chiedeva non solo di sviluppare un’area metropolitana integrata, con un’autorità unica per i trasporti che migliorasse i collegamenti fra i comuni del milanese, ma anche una zona franca a “semplificazione totale”, nel periodo che va dal novembre 2014 al novembre 2015. Cioè, prima durante e dopo l’Expo 2015. Milano, in quell’arco di tempo di 12 mesi diverrebbe un’area con meno burocrazia su tutte le pratiche legate all’imprenditoria (occupazione del suolo pubblico, gestione dei rifiuti, fiscalità locale) e, in generale, meno tasse.

L’idea di una “zona franca” è particolarmente interessante per chiunque abbia a cuore il federalismo. Lasciamo perdere, per un attimo, le probabilità concrete (piuttosto bassine) che le autorità locali accolgano le richieste di Confcommercio fino in fondo, o siano autorizzate da quelle nazionali ad accoglierle. Vediamo come funzionerebbe, se venissero accolte seriamente e fino in fondo. Milano e provincia, la futura città metropolitana, diverrebbero una piccola zona del Paese in cui diventa facile aprire nuove imprese, si pagano meno tasse, sbrigare le pratiche che riguardano la gestione aziendale diventa un lavoro che ruba alcuni giorni e non un anno di lavoro. A questo punto vedremmo aziende sorgere come funghi e chiedere manodopera, lavoratori giungere a Milano da tutte le regioni di Italia in cerca di fortuna, vuoi per aprire un’attività in proprio, vuoi per farsi assumere da qualche nuova iniziativa. Con Expo i clienti non mancheranno di sicuro e chiunque abbia a che fare con il pubblico avrebbe pane per i suoi denti. Una Milano così competitiva non è cosa da poco: già ora produce, da sola, il 10% del Pil nazionale. Diventando una zona franca potrebbe trasformarsi in un piccola/grande potenza economica.
Adesso vediamo quale sarebbe l’impatto sul resto del Paese. Altre città promettenti, vedendosi svuotate del loro valore da una Milano emergente, si darebbero da fare per attirare lavoratori, investitori e imprenditori. Non hanno Expo, ma possono inventarsi iniziative dal respiro internazionale. Inizialmente farebbero come tutti: chiederebbero fondi allo Stato centrale. Ma dato che i fondi scarseggiano, non è detto che il governo (qualunque sia il governo del 2015) glieli conceda. Dunque chiederebbero, almeno, di avere anch’esse, provvisoriamente, di essere trasformate in zone franche: meno tasse e meno burocrazia. L’asimmetria dell’iniziativa (alcune città sono zone franche altre no) garantisce l’innesco della competizione. Se la formula funziona, invece che un espediente di un anno, la “zona franca” potrebbe diventare permanente.
Sogno? Sì e no. Sì, prima di tutto perché non è detto che la stessa Confcommercio intenda la zona franca in un modo così radicale come quella descritta in questo articolo. E poi, soprattutto perché nel corso della trattativa si arriverà a una soluzione di compromesso talmente annacquata da non distinguere più le regole della Milano di Expo 2015 da quelle già in vigore oggi, come sempre accade quando passa una riforma in Italia. Non è un sogno, però, nel senso che le zone franche esistono e funzionano davvero. Anche un lontano inferno totalitario come la Cina ha sperimentato più volte le sue Special Economic Zones. Dal 1980 in poi, ne sono state istituite 20, fra cui la gigantesca Shanghai. Le Special Economic Zones consistono proprio in: sconti fiscali, maggior indipendenza delle imprese, incentivi alla costituzione di attività economiche internazionali. Sono quelle 20 isole di libero scambio che hanno trascinato dietro di sé tutto il resto del Paese, non per emulazione (che in un regime totalitario è vietata), ma perché il regime di Pechino ha capito che quel modello funzionava meglio rispetto alla pianificazione e ha iniziato ad applicarlo anche al resto del Paese. Dopo una trentina di anni la Cina è diventata quel che sappiamo.
Ed è un Partito Comunista che ha promosso quella strategia. I nostri politici, che dichiarano di non essere mai stati comunisti, hanno qualcosa da imparare. Ma lo capiranno?

articolo tratto da: L'Intraprendente.it