La decomposizione dello Stato italiano, con la sfiducia crescente dei cittadini
nella partitocrazia, anche in quella di nuovo conio (il voto a Grillo è
stato un gesto di disperazione, non di speranza), dovrebbe rilanciare le istanze autonomiste e indipendentiste. Dovremmo
ispiraci al modello fiammingo, poiché fra tutti è l’esempio belga quello che
presenta maggiori somiglianze col caso italiano. Anche in Belgio, fino a poco tempo fa, c’erano due parti
del paese che non stavano insieme. Così i fiamminghi si sono virtualmente
separati dai valloni, il gruppo egemone e sfruttatore. Il Belgio unitario
praticamente non esiste più; la separazione di fatto è solo una questione di
tempo. L’Italia non è solo divisa tra i partiti, clan, camarille; lo è ancora
di più nelle sue parti etniche e geografiche che il tempo non ha reso omogenee,
anzi ha esaltato le rivalità e i contrasti. (Lo dimostrano i commenti offensivi
ad ogni mio intervento su questo giornale di gente che non vuol capire. Peggio
per loro).
Oggi le condizioni non sono cambiate, anzi si sono aggravate; così al
fallimento conclamato delloStato italiano non c’è che un’unica soluzione, una
sola; quella della separazione consensuale tra Nord e Sud. Indro Montanelli, benché contrario a ogni idea
separatista, non ha nascosto l’essenza del problema italiano scrivendo con la
consueta franchezza: ”La distanza tra Milano e Agrigento non è astronomica, ma
è pur sempre sproporzionata alla vastità del territorio misurata in chilometri
quadrati. Tutto ciò che è iniziativa privata, cioè industria,
agricoltura, commercio,ricchezza è monopolio del Nord; tutto ciò che è
burocrazia e soprattutto polizia è monopolio del Sud. E questo crea il
paradosso di una delle società più attive e intraprendenti qual è appunto
quella dell’Italia settentrionale amministrata da uno stato meridionale, che
sotto alcuni punti di vista ricorda quello egiziano di Faruk”.
E’ chiaro che uno stato simile non ha la
minima possibilità nè di durare né di essere accettato da
almeno una delle due parti che si sentono penalizzate.
L’idea della macroregione rilanciata da Maroni potrebbe essere un buon inizio per
giungere a una sorta di soluzione belga. Qualcosa di simile l’aveva già
immaginato Filippo Turati a
nome dei socialisti riformisti milanesi. Al Nord non si perdeva la speranza,
giacchè il fallimento unitario era già palese, di poter giungere a una graduale
autonomia nella forma vagheggiata da Carlo Cattaneo, il quale immaginava una federazione dell’Alta Italia che aveva il suo perno vitale nella
Lombardia. Fu così che socialisti e repubblicani del Nord invocarono uno “Stato di Milano”, nel quale i governativi e i
patrioti unitari videro un pericolo, una rivoluzione, uno sconquasso per lo
Stato unitario. In realtà il progetto di autonomia era graduale e teneva conto
delle peculiarità multiformi della penisola. ”Stato di Milano” voleva dire
Lombardia governata dai lombardi. ”Stato di Milano” voleva dire amministrazione
e finanza di casa, fatta da gente che conosceva il paese. Voleva dire
giustizia, dove il giudice, l’avvocato, l’imputato, il cliente si capivano tra
loro, con le leggi fatte per loro. ”Stato di Milano” significava l’applicazione
di regole federali in cui ogni regione, o Stato, si dava leggi e regolamenti
vicini alla propria sensibilità e al proprio carattere. Voleva dire magistrati,
professori di scuola, funzionari di Stato reclutati sul territorio; non più
l’assalto di giudici, burocrati, questurini, prefetti tutti venuti da fuori e
da molto lontano con abitudini, metodi e psicologie incomprensibili. Il
programma scritto allora è valido ancora oggi. Nessun obiettivo ha perso
d’attualità. Maroni ne tenga conto, come ne hanno tenuto conto gli elettori
lombardi che hanno raccolto il messaggio: è il solo metodo legalitario per
uscire dal pelago italiano. Sono i costumi che fanno le leggi.