giovedì 29 agosto 2013

Macroregione del Nord: autonomi, liberi e lontani da Roma

La decomposizione dello Stato italiano, con la sfiducia crescente dei cittadini nella partitocrazia, anche in quella di nuovo conio (il voto a Grillo è stato un gesto di disperazione, non di speranza), dovrebbe rilanciare le istanze autonomiste e indipendentiste. Dovremmo ispiraci al modello fiammingo, poiché fra tutti è l’esempio belga quello che presenta maggiori somiglianze col caso italiano. Anche in Belgio, fino a poco tempo fa, c’erano due parti del paese che non stavano insieme. Così i fiamminghi si sono virtualmente separati dai valloni, il gruppo egemone e sfruttatore. Il Belgio unitario praticamente non esiste più; la separazione di fatto è solo una questione di tempo. L’Italia non è solo divisa tra i partiti, clan, camarille; lo è ancora di più nelle sue parti etniche e geografiche che il tempo non ha reso omogenee, anzi ha esaltato le rivalità e i contrasti. (Lo dimostrano i commenti offensivi ad ogni mio intervento su questo giornale di gente che non vuol capire. Peggio per loro).
 L’empasse politico, l’ingovernabilità, le divisioni minano ciò che resta di un concetto unitario esaltato e divulgato ma che non ha messo radici. La paralisi che attanaglia i partiti, dopo il voto che doveva essere risolutivo, il divarioNord-Sud, rimandano per analogia alla crisi politica e istituzionale di fine Ottocento, quando le sconfitte militari, gli scandali bancari e il discredito della politica e della monarchia favorirono le tentazioni separatiste tanto al Nord quanto al Sud. Si conveniva che non potesse vivere e durare una Nazione divisa in due: una agiata e colta, con minima criminalità, con industrie fiorenti; l’altra povera, con alte proporzioni di analfabeti, con forte delinquenza, con una agricoltura se non morente, sofferente. In tali condizioni l’unità d’Italia – e doveva intendersi l’unità morale e sentimentale – non era che una pietosa menzogna.Pasquale Villari, storico napoletano, prima di altri, aveva compreso drammaticamente che da solo il Sud non ce l’avrebbe fatta e che il Centro-Nord, sempre più insofferente, era stufo di trascinarsi dietro un peso morto.
Oggi le condizioni non sono cambiate, anzi si sono aggravate; così al fallimento conclamato delloStato italiano non c’è che un’unica soluzione, una sola; quella della separazione consensuale tra Nord e Sud. Indro Montanelli, benché contrario a ogni idea separatista, non ha nascosto l’essenza del problema italiano scrivendo con la consueta franchezza: ”La distanza tra Milano e Agrigento non è astronomica, ma è pur sempre sproporzionata alla vastità del territorio misurata in chilometri quadrati. Tutto ciò che è iniziativa privata, cioè industria, agricoltura,  commercio,ricchezza è monopolio del Nord; tutto ciò che è burocrazia e soprattutto polizia è monopolio del Sud. E questo crea il paradosso di una delle società più attive e intraprendenti qual è appunto quella dell’Italia settentrionale amministrata da uno stato meridionale, che sotto alcuni punti di vista ricorda quello egiziano di Faruk”.
E’ chiaro che uno stato simile non ha la minima possibilità nè di durare né di essere accettato da almeno una delle due parti che si sentono penalizzate.

L’idea della macroregione rilanciata da Maroni potrebbe essere un buon inizio per giungere a una sorta di soluzione belga. Qualcosa di simile l’aveva già immaginato Filippo Turati a nome dei socialisti riformisti milanesi. Al Nord non si perdeva la speranza, giacchè il fallimento unitario era già palese, di poter giungere a una graduale autonomia nella forma vagheggiata da Carlo Cattaneo, il quale immaginava una federazione dell’Alta Italia che aveva il suo perno vitale nella Lombardia. Fu così che socialisti e repubblicani del Nord invocarono uno “Stato di Milano”, nel quale i governativi e i patrioti unitari videro un pericolo, una rivoluzione, uno sconquasso per lo Stato unitario. In realtà il progetto di autonomia era graduale e teneva conto delle peculiarità multiformi della penisola. ”Stato di Milano” voleva dire Lombardia governata dai lombardi. ”Stato di Milano” voleva dire amministrazione e finanza di casa, fatta da gente che conosceva il paese. Voleva dire giustizia, dove il giudice, l’avvocato, l’imputato, il cliente si capivano tra loro, con le leggi fatte per loro. ”Stato di Milano” significava l’applicazione di regole federali in cui ogni regione, o Stato, si dava leggi e regolamenti vicini alla propria sensibilità e al proprio carattere. Voleva dire magistrati, professori di scuola, funzionari di Stato reclutati sul territorio; non più l’assalto di giudici, burocrati, questurini, prefetti tutti venuti da fuori e da molto lontano con abitudini, metodi e psicologie incomprensibili. Il programma scritto allora è valido ancora oggi. Nessun obiettivo ha perso d’attualità. Maroni ne tenga conto, come ne hanno tenuto conto gli elettori lombardi che hanno raccolto il messaggio: è il solo metodo legalitario per uscire dal pelago italiano. Sono i costumi che fanno le leggi.